Eroe sì, ma non al cinema
Una sera di diversi anni fa ero solo in casa ed era in corso uno sciopero del personale Rai. Come succede in questi casi, la TV trasmise un documentario.
Eroe sì, ma non al cinema
Una sera di diversi anni fa ero solo in casa ed era in corso uno sciopero del personale Rai. Come succede in questi casi, la TV trasmise un documentario. All’inizio gli prestai un’attenzione moderata, ma poi la storia mi prese. Si parlava di Pasquale Rotondi. Mai sentito dire? Allora io non lo avevo mai sentito nominare. Chi era dunque? Nel 1940, quando non aveva ancora compiuto 31 anni e stava per scoppiare la guerra, era sovrintendente alle belle arti di Urbino. In seguito l’età media dei sovrintendenti sarebbe cresciuta parecchio, ma è un’altra faccenda. Il nostro Rotondi, nell’imminenza del conflitto, riceve l’incarico di mettere al sicuro le opere d’arte che rientravano nella sua giurisdizione. Si temevano più che altro i bombardamenti aerei, e si trattava dunque di trovare rifugi sicuri. Il nostro eseguì diligentemente il compito affidatogli, ma ad un certo punto si presentò un problema nuovo. Tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, soverchianti truppe tedesche occuparono la penisola, mentre i governanti nostrani scappavano o non sapevano che fare. Com’è noto, chi nei secoli ha visitato militarmente l’Italia non ha resistito alla tentazione di portarsi via qualche ricordino. Ai tempi di Napoleone Bonaparte qui da noi si mormorava: «I francesi non sono tutti ladri ma buonaparte sì». Il Terzo Reich era capeggiato da uno che aveva tentato l’ammissione all’accademia di belle arti ed era stato respinto. Ma il vero assatanato era Herman Göring, che faceva letteralmente razziare dai suoi uomini tutta l’arte che incontrava sul suo percorso. C’era quindi da temere che fra i militari che occupavano l’Italia centrale fino al 1944,ladruncoli, cleptomani e rapinatori agli ordini di Berlino avrebbero fatto un bel danno. E si badi che qui stiamo parlando di cose da niente come Giorgione, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Tiziano, Carpaccio, Mantegna, Raffaello.
Nel famoso documentario «crumiro» si raccontavano con dovizia di particolari tutte le peripezie di Pasquale Rotondi, funzionario di un ministero che aveva perso i contatti con lui e dunque non gli dava disposizioni. A questo punto è lecito chiedersi: qual è l’italiano vero? Quello che ubbidisce unicamente ad ordini superiori, in mancanza dei quali non si assume responsabilità, o quello che, consapevole del valore affidatogli le responsabilità se le assume anche in assenza di ordini superiori? Rotondi era evidentemente del secondo tipo. All’inizio diligentemente individuò la
Rocca di Sassocorvaro e il Palazzo dei Principi di Carpegna come depositi e nascondigli dei suoi tesori. Poi mise in scena tutto quanto la sua fantasia gli suggerì per aggirare i tedeschi e farla franca. Più che a uno Schindler, lo paragonerei a Giorgio Perlasca.
http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/muore-pasquale-rotondi/399/default.aspx
Ma eccoci al punto. Perché io dovetti imparare dell’esistenza di Rotondi da un documentario casualmente trasmesso come riempitivo? Non era quella una storia da passare in prima serata? E se parliamo di libri e di film, c’è una spiegazione al fatto che storie come quelle dei nostri Perlasca e Rotondi non vengono mai assunte da grandi produttori, affidate a grandi registi e recitate da grandi attori, mentre la vicenda di Oscar Schindler e quella di Frank Stokes e della sua squadra, anche grazie a investimenti cospicui, invadono tutti i cinema almeno dell’Occidente e se ne parla ben prima che escano nelle sale? È quello che sta succedendo appunto in questo momento. Il film è “Monuments men”, diretto da George Clooney e recitato da George Clooney, Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Jean Dujardin. La locandina annuncia: «Mentre le forze alleate stanno sferrando il loro attacco alla Germania lo storico dell’arte Frank Stokes ottiene l’autorizzazione da Roosevelt in persona per mettere insieme un gruppo di esperti che cerchi di recuperare le opere d’arte che Hitler ha fatto portare via e nascondere in previsione della costruzione del mastodontico Museo del Fuhrer. In caso di sconfitta del Reich l’ordine è di distruggerle. Si viene così a creare una compagnia formata da due storici e un esperto d’arte, un architetto, uno scultore, un mercante, un pilota britannico e un soldato ebreo tedesco per le traduzioni.»
Non avendo ancora visto il film, che sarà senz’altro gradevole come tutti i film americani di guerra, non posso affermare alcunché circa il reale spirito con cui l’operazione fu messa in piedi e gestita. Non so cioè dire quanta parte avesse lo spirito venale in tutto ciò. Sono invece certo che la venalità fu del tutto assente nel lavoro di Pasquale Rotondi, in cui ad agire erano solo lo spirito di servizio del funzionario competente e la formazione storica e culturale dell’uomo.
Finita la guerra, le opere tornarono al loro posto e nulla si seppe delle avventure che avevano corso assieme al loro salvatore. Il quale riprese la, diciamo così, normale vita di alto funzionario. Scrisse anche libri di storia dell’arte e insegnò la materia in un liceo. Poi lo troviamo ancora una volta a salvare beni culturali. Fu a Firenze dopo l’alluvione del 1966, quando assunse la direzione delle operazioni nella sua qualità di direttore dell’Istituto Centrale di Restauro di Roma.
Dice la sua scheda in Wikipedia:
«Dopo essere andato in pensione, nel 1973, venne nominato dalla Città del Vaticano “consulente tecnico per i restauri delle Gallerie e dei Musei pontifici”, ed è mentre seguiva in prima persona il restauro degli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina che morì in un incidente nel 1991, a 81 anni, investito nel centro di Roma da una moto di grossa cilindrata.»
E così morì un grande l’uomo di cui gli italiani potrebbero andar fieri solo che sapessero della sua esistenza.
È mai possibile – mi chiedevo io mentre non riuscivo a staccarmi dal televisore? Sì e no. Perché l’allora giovane sindaco di Sasso Corvaro Oriano Giacomi s’imbattè nel 1984 nelle tracce della vicenda di quarant’anni prima e si chiese che fine avesse fatto questa persona. E così in privato si recò a Roma e lo rintracciò ai restauri vaticani. Il documentario raccontava l’incontro. E io mi ricordai immediatamente la risposta che Giorgio Perlasca aveva dato al giornalista che gli chiedeva perché si fosse così esposto nel salvataggio di migliaia di ebrei: “Lei cos’avrebbe fatto?”
E già, perché né Perlasca né Rotondi han fatto ciò che han fatto pensando che su di loro sipotesse o dovesse fare un film. Per questo non si raccontarono. Raccontiamoli noi allora! Chissà che non ci venga voglia di imitarli.
Carlo Loiodice